Il sì del ministro Profumo alla scuola tecnica

Il ministro dell’Istruzione chiede all’Italia uno sforzo per investire sulla formazione dei tecnici professionali. E De Rita: non abbiamo bisogno di geni né di persone che vanno all’università come se si trattasse di una passeggiata all’Ikea

FLAVIA AMABILE

Non ci saranno riforme ma il governo Monti intende spingere sull’acceleratore dell’istruzione tecnica. Il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, ieri ha chiesto all’Italia «un grande investimento nella formazione tecnico-professionale, sia a livello di scuola superiore, sia a livello di percorsi post diploma».

La strada è quella tracciata già da Mariastella Gelmini. Non esistono ancora dati definitivi sul successo del nuovo impulso dato ai tecnici, al ministero sono in forte ritardo ma si sa già che in Lombardia le iscrizioni sono in aumento. I percorsi regionali di istruzione e formazione professionale passano dal 17,1 per cento del totale dello scorso anno al18,6 per cento, con un aumento dell’1,5 per cento. E’ quanto risulta da una nota congiunta dell’Assessorato regionale all’Istruzione, Formazione e Cultura e dell’Ufficio scolastico regionale. Alla fine sono solo i percorsi regionali di istruzione e formazione professionale ad aumentare grazie anche ad un finanziamento specifico della Regione Lombardia pari a oltre 173 milioni di euro.

«Rispetto ad altri Paesi europei con cui ci confrontiamo in termini competitivi come la Germania – avverte Profumo – siamo molto in ritardo sia dal punto di vista dei numeri perchè abbiamo un eccesso di studenti che seguono un percorso liceale, sia in termini di sistema di relazioni tra scuola e realtà socio-economica». Secondo il ministro «è indispensabile fare un progetto complessivo sulla formazione tecnico-professionale che coinvolga anche le aziende e i sindacati. La connessione tra scuola e azienda va migliorata con un lavoro sul dettaglio».

Il governo, infatti, ha inserito nel decreto sulla semplificazione l’articolo 52 che prevede la creazione di poli tecnici professionali partendo dai 59 istituti tecnici superiori creati lo scorso anno. Il sottosegretario all’Istruzione Elena Ugolini avrà la delega e a lei spetta il lavoro che partirà ora di creare le linee guida con le Regioni per fare in modo che siano seguite le esigenze del territorio. «Finalmente potremo incrociare la mappa della filiera produttiva, degli enti di ricerca, degli istituti superiori e professionali. C’è una grande attenzione da parte delle imprese nei confronti dei 59 Istituti Tecnici Superiori, è questa la strada da seguire per offrire opportunità ai nostri giovani», sottolinea Elena Ugolini.

I poli tecnologici potranno essere «non solo fisici ma anche di rete» e avere ambito regionale ma anche pluriregionale, svela il sottosegretario. Il governo, infatti, intende seguire criteri ben precisi come è indicato anche nel decreto sulla semplificazione. «Le linee guida, dovranno permettere di «realizzare un’offerta coordinata di percorsi degli istituti tecnici superiori in ambito nazionale, in modo da valorizzare la collaborazione multiregionale e facilitare l’integrazione delle risorse disponibili con la costituzione di non più di un istituto tecnico superiore in ogni regione per la medesima area tecnologica». E la scelta non sarà casuale o dettata da semplici criteri didattici ma «pianificata sulla base della realtà e delle esigenze di sviluppo», conclude Elena Ugolini.

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Giuseppe De Rita, presidente del Censis: il ministero dell’Istruzione chiede all’Italia un «grande investimento» sull’istruzione tecnica e professionale.
«Era ora. In passato la nostra forza è stata proprio la dimensione intermedia della formazione e dell’industria. L’Italia è stato un Paese soprattutto di geometri e piccole imprese più che di ingegneri e grandi industrie. Negli ultimi venti anni c’è stato uno slittamento verso l’alto invece di continuare a puntare su quelli che ormai erano considerati profii più bassi».

I genitori hanno investito nello studio dei figli. Li vogliamo condannare per questo?
«Hanno sbagliato ma non solo loro. Anche le università e la politica hanno finito per considerare i processi formativi alla stregua di di accumulazioni finanziarie: più anni si studia maggiore è la formazione che si ha. Non è così, invece».

Il problema è anche che cosa si studia.
«Per 15-20 anni gli istituti tecnici sono stati considerati luoghi non adatti. Erano i licei soltanto i luoghi dove si poteva studiare e andare avanti. Il ministero dell’Istruzione venti anni fa aveva tentato di dare il via libera a un diploma universitario post-diploma destinato a chi aveva frequentato i tecnici. L’idea era di creare dei super-geometri o dei super-periti. Forse non era meravigliosa ma di sicuro era preferibile al 3+2 che poi l’ha superata. Era pensata per garantire un’offerta di lavoro intermedio».

E com’è andata?
«E’ arrivato il 3+2 che ha sconvolto ogni piano. Abbiamo creato tanti ingegneri generici, il mercato non sapeva che farsene. L’Italia non ha bisogno di geni: la gran parte di chi accede alla formazione deve poter garantire una risposta ad un’offerta di lavoro intermedia non di eccellenza. La nostra struttura imprenditoriale è per il 95% costituita da piccole imprese con al massimo 10 addetti, non ci è consentito altro. Anche oggi non abbiamo bisogno di geni, e nemmeno più di super-geometri o super-periti. Abbiamo bisogno però di super-tecnici che sappiano tutto di tecnologia, di informatica, del mondo digitale».

Tutto questo è giusto ma in Italia nessuno ha ben chiari i ruoli: le aziende accusano le università di sformare laureati troppo generici e le università di non assumere i loro laureati. Mentre loro litigano i giovani restano disoccupati.
«Le aziende sono colpevoli perché dovrebbero investire nei giovani: puntare su uno o due e formarli al loro interno. Ma le università italiane sono cresciute troppo e creano folle di persone frustrate perché si sono laureate ma non trovano lavoro o perché non hanno le idee chiare e frequentano corsi a caso senza sapere bene perché. Spesso gli studenti mi danno l’idea di andare in facoltà come se andassero a fare una passeggiata all’Ikea: vanno lì, danno uno sguardo in giro, se c’è un corso interessante lo frequentano ma è tutto molto vago. La formazione non può prescindere dalla specificità. E’ possibile avere 3mila corsi di laurea?»

Si potrebbe anche avere 3mila corsi di laurea ma se fossero super-specializzati e formassero gli studenti sulla base delle richieste delle aziende.
«Invece ne abbiamo tremila che sono pensati dai professori per i professori o per far crescere il sistema universitario invece che per offrire agli studenti una vera formazione».

Come uscire da questa impasse?
«Con finanziamenti che permettano alle aziende di investire nei giovani ma anche cambiando il sistema di finanziamento delle università: finché sarà legato al numero degli iscritti non si otterrà altro che un allargamento quantitativo della formazione».